Quando si assiste al dolore di un uomo che se ne sta chiuso nella sua camera, nella mente del terapeuta o di chiunque altro si trovi al suo posto si alza quasi per riflesso una barriera di pensieri (…) ma è una barriera instabile: è naturale che crolli e che ci si identifichi con il dolore dell’altro.
Il guaio è che questa barriera tra malato e non malato impedisce un’autentica esperienza di empatia. Possiamo avere l’impressione che il nostro cuore sia chiuso al paziente, avvertire in sua presenza una leggera freddezza o una certa insensibilità corporea o sentirci in qualche modo impenetrabili. (…)
In questo tipo di apertura a un’altra persona non c’è nulla di magico o patologico. Essa rientra nelle nostre risorse naturali attraverso le quali abbiamo esperienze in cui ci sentiamo uniti all’ambiente in cui non ce ne stacchiamo come esseri separati e diversi. (…)